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UNA PENNA AL POSTO DI FREUD

  • Laura
  • 2 mar 2015
  • Tempo di lettura: 2 min

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“Scrivo anche per risparmiare i soldi dello psicoterapeuta”, scrive nella pagina “Chi siamo” Gian Maria, citando Franco Fortini. Ma la scrittura può essere davvero una terapia? Beh, fa di sicuro un gran bene riversare su carta la frustrazione, la rabbia, la delusione, ma anche, perché no, la gioia, le esperienze buone e meno buone, i sogni e le speranze. Perché poi, quando scrivi puoi far succedere di tutto, magari puoi far scomparire quel dolore grazie a un incontro felice, o a un ritorno improvviso, o a un’illuminazione. E il sogno che rincorri, chissà che con la tastiera tu non riesca a trovare un modo per farlo avverare. Tutto è possibile, nella letteratura. Milan Kundera nel suo saggio L’arte del romanzo ha descritto i personaggi dei libri come degli “io sperimentali”. È così. Scrivere consente di esplorare ogni realtà possibile, ogni via praticabile.

Anche dalla ricerca empirica giungono conferme dei benefici che derivano dalla scrittura. Il potere terapeutico della scrittura è stato analizzato approfonditamente da James W. Pennebaker. Per studiare come la narrazione scritta agisce sulla memoria che conserviamo di un dato evento, Pennebaker ha allestito, insieme al suo gruppo di ricerca, un programma computerizzato che analizza dal punto di vista linguistico i testi prodotti, e ha rilevato che coloro che scrivono dei propri traumi riportano nel testo man mano sempre più parole positive e sempre meno parole negative. L’ipotesi di Pennebaker è che gran parte delle conseguenze negative di un trauma sono dovute alla difficoltà di elaborare le emozioni e all’impossibilità di condividerle. Scrivere induce due effetti positivi: da una parte riduce la fatica mentale di rimuovere il trauma, dall’altro consente di riorganizzare l’evento, inserendolo in una struttura linguistica. Il beneficio sta proprio nella necessità di dare coerenza al vissuto: “nel ricordo alcuni dettagli sfumano a vantaggio di elementi più significativi; il bisogno di coerenza e continuità che caratterizza la narrazione autobiografica, ci aiuta a ricostruire le parti mancanti, a riparare la frammentazione iniziale. A questo punto l’evento può essere dimenticato e assumere una diversa significatività, in ogni caso lo stress associato alle reazioni emotive conservate nella memoria del trauma si riduce o scompare (Pennebaker, 1999).

In effetti le emozioni negative sono spesso degli agglomerati informi che sfociano nei sintomi dell’ansia e della depressione, utilizzare la parola scritta aiuta a dar loro un ordine e a comprenderli, a elaborarli. Riversare l’emozione sul foglio ci aiuta a distaccarci da essa, è in un certo senso catartico. Carta e penna ci aiutano a stare nelle emozioni, a conoscerle, a non rimuovere, e infine ad andare oltre.

Si può narrare in forma autobiografica, oppure affidare la nostra ferita a un personaggio inventando una storia, il che può aiutarci ancor di più a guardarla con distacco, da un’angolazione diversa rispetto a quella in cui siamo rinchiusi. Basta partire da una sensazione, da un’esperienza, e lasciare libera la fantasia di esternare i nostri vissuti e e magari ciò ci aiuterà a trovare nuove vie per procedere nel nostro cammino. Non è necessario imbarcarsi nella stesura di un impegnativo romanzo, può essere sufficiente anche un racconto, una breve storia che abbia il potere di riportarci a noi stessi.

Provare per credere.

 
 
 

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